The Milky way

regia:
Luigi D’Alife
durata:
84'
anno di produzione:
Italia, 2020
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Le Alpi occidentali tra Italia e Francia sono state nel corso dei secoli una frontiera naturale, così come un luogo di passaggio e incontro. I suoi colli costituiscono terra di connessione, mediazione tra popoli e culture differenti.

La storia più recente ci racconta come negli ultimi 200 anni siano stati gli italiani ad attraversare clandestinamente il confine per andare a cercare lavoro in Francia, mentre oggi è diventata una rotta utilizzata anche dai migranti di origine africana. Le recenti politiche di chiusura dei confini interni europei hanno spinto le persone migranti alla ricerca di strade meno battute per lasciare l’Italia e proseguire il viaggio oltre il confine con la Francia, spingendoli a passare tra i sentieri di alta montagna come quelli che costeggiano gli impianti del comprensorio sciistico “La via lattea”, proprio sul confine tra Claviere (IT) e Monginevro (FR). Durante il giorno le piste da sci sono luogo di divertimento, sport e svago; di notte, si trasformano in un teatro di paura, pericolo e violazione dei diritti umani: i migranti, poco preparati e mal equipaggiati, imboccano i sentieri sfidando il buio, il freddo e i controlli delle autorità francesi, rischiando la vita.

“The Milky Way” è un film corale che, attraverso il racconto di attivisti, degli abitanti delle montagne, la ricostruzione storica in graphic novel animata dell’emigrazione italiana degli anni ’50, le storie dei migranti messi al sicuro dai solidali sui due lati del confine, getta luce sull’umanità che riaffiora quando il pericolo imminente riattiva la solidarietà, con la convinzione che nessuno si possa lasciare indietro. Nessuno si salva da solo. 

Note di regia

La prima volta che ho messo piede nella sala d'aspetto della  stazione di Bardonecchia era quasi Natale. C'era un via vai  frenetico visto il periodo di vacanza.  Mentre tutto intorno scorreva, una mezza dozzina di ragazzi  attendeva.  Il loro obiettivo era passare il confine, andare in Francia o  ancora oltre.  Ed è stato in quel primo contatto, quello in cui superi  l'impasse e dici “tutto bene? Hai bisogno di qualcosa?”, che è  nata questa storia. O almeno la necessità di raccontarla.  

Il presente mediatico che viviamo dipinge la questione  migratoria attraverso una narrazione stereotipata e retorica,  dove l'emergenza umanitaria e quella securitaria si  sovrappongono all'interno del grande contenitore politico  volto a indirizzare i sentimenti dell'opinione pubblica  europea.  Un racconto tossico dove il “migrante” diventa una categoria  di spersonalizzazione e di negazione, una minaccia dal punto  di vista identitario, qualcosa che legittima un approccio  poliziesco alla questione.  

Da qui la scelta di decostruire (e ricostruire) partendo dal  territorio e dalle sue caratteristiche storiche, sociali e  geografiche, che in nessun modo possono essere scisse  rispetto al rapporto con la frontiera. Siamo abituati a pensare  alle montagne come una barriera fisica, un “confine  naturale”. Non c'è nessun dubbio che effettivamente  rappresentino un ostacolo all'attraversamento da parte degli  uomini.  Ma c'è una seconda verità, più profonda, ed è quella che  pone le Alpi come luogo da sempre abituato alle  contaminazioni virtuose, agli scambi tra il basso e l'alto, tra  popolazioni con culture e stili di vita assai diversi.  Una cerniera dunque, non certo una barriera.  Le comunità, parte della stessa millenaria civiltà alpina, sono  state nel corso dei secoli separate e schierate su fronti   contrapposti da una nuova e artificiale frontiera, riuscendo  tuttavia a preservare forme comunitarie antichissime e  pratiche di mutua assistenza.  La scelta è stata di partire dalle storie degli abitanti delle  montagne, di chi oggi come ieri crede che nessuno si lascia  indietro, che non c'è colore della pelle, pezzo di carta, lingua  straniera, che possa determinare chi va soccorso e chi no.  Lo sa bene chi ogni sera calpesta la neve dei sentieri in cerca  di qualcuno di mai conosciuto, di cui non si sa neanche il  nome, ma che di fronte all'ennesimo viaggio pericoloso non  deve essere lasciato solo, dimostrando così che il più virtuoso  dei sentimenti umani, quello di chi mette a disposizione la  propria vita per gli altri, non è seppellito in un passato  nostalgico e lontano, ma vive oggi, qui e ora.  

Eppure, dalla frontiera del mediterraneo centrale a quella  delle Alpi, non è più necessario aver commesso un reato o  essere presunti criminali, basta essere sospettati di essere  umani per essere colpiti, criminalizzati, condannati.  In questo senso, il recupero della memoria intrapreso nel  percorso del film, non vuole essere un esercizio retorico  (“quando gli immigrati eravamo noi”), bensì una sua  riattualizzazione, attraverso i gesti e le pratiche che  (soprav)vivono fino a noi.  In nessun modo si può scindere il rapporto tra la frontiera e il  territorio in cui si trova.  Nel corso del '900 l'economia dell'alta montagna ha subito un  radicale processo di trasformazione. Le infrastrutture hanno  reso la pianura più “vicina”, mentre il cemento divorava i  pendii ed il turismo soppiantava l'economia agricola di queste  zone.  

Oggi la rotta migratoria delle Alpi occidentali attraversa il  comprensorio sciistico de “La via Lattea”, 400 km di piste da  sci che corrono lungo tutta l'area del confine tra Italia e  Francia.  In una storia dai contrasti forti, come sempre sono quelle che  si svolgono sui confini, l'immagine del bianco delle piste su cui  migliaia di persone sciano calpestando il confine, contrasta  con il nero della notte, in cui i due paesi, ormai svuotati di  turisti, diventano terreno di caccia per i gendarmi francesi:  luogo dunque di pericolo, violazione dei diritti umani e  violenze.  Una perfetta metafora della moderna civiltà, dove merci e  profitti viaggiano veloci mentre le persone rischiano di morire  (e muoiono) per il colore della pelle “sbagliato” sulle  frontiere. Luoghi che non sono più solo linee punteggiate   sulle mappe, bensì muraglie di eserciti e poliziotti, di cemento  e mattoni, di leggi e persecuzioni.  I “migranti”, fantasmi erranti senza nome né volto sono solo  un numero statistico.  

La negazione della loro esistenza è il pilastro su cui si fonda  l'ordine sociale e lo stato di “normalità” di questi luoghi. Non  ci sono migranti, non c'è confine.  Il dispositivo della frontiera esplicita il suo volto.  Perché non provare a sfidarla nelle sue contraddizioni, ovvero  attraverso il privilegio di cui si nutre e alimenta?  Il desiderio è l’anticamera della volontà, è il fondamento su  cui si basa l’azione. Quando desideri qualcosa, vuoi realizzarlo  a tutti i costi: ecco che il desiderio si trasforma in obiettivo.  I desideri muovono gli uomini e fanno girare il mondo. Al  contrario di quanto si pensa, non favoriscono l’illusione, non  ci allontanano dalla percezione realistica delle cose: i desideri  rispondono piuttosto al bisogno di credere possibile il  cambiamento, anche in situazioni di realtà oggettiva  complicata.  Ogni essere umano ha diritto a un’esistenza libera e degna  nel luogo che ritiene migliore, ed ha il diritto di lottare per  restarci.  Bisogna far sapere a tutta quella gente che non è sola, che il  suo dolore e la sua rabbia è visibile, che la sua resistenza è  appoggiata.  Bisogna camminare insieme, perché nessuno si salva da solo,  nè qui nè altrove.

Regia: Luigi D’Alife
Soggetto e sceneggiatura: Luigi D’Alife
Direttore della fotografia: Nicola Zambelli
Montaggio: Angelica Gentilini, Luigi D’Alife
Musica: Claudio Cadei in collaborazione con Luigi De Gaspari
Produzione SMK Factory